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Ricordare il passato per costruire il futuro - 2020

Michele Vitolo

 

Insieme a frammenti di vasi ceramici, nelle tre tele centrali di Filosofia dell’avvenire di Anna Crescenzi sono rappresentati numerosi frammenti di coroplastica fittile votiva antica che riproducono in maniera più o meno puntuale i manufatti archeologici rinvenuti a Foce di Sarno e Capua, aree della Campania in cui l’Artista vive e lavora: si tratta delle statuette rappresentate nello strato intermedio della sequenza di livelli di terra, che richiamano quelle di Foce di Sarno, e gli omini in fasce che partendo dallo strato superficiale si stagliano verso il cielo, ispirati invece ai bambini tenuti nelle braccia delle statue femminili in tufo di Capua (le cd. grandi madri del Fondo Patturelli).

La presenza di tali elementi, che attestano riti e culti antichi connessi alla fertilità e alla nascita (ne è prova il comune riferimento all’immagine della donna, partoriente o con un bambino nelle braccia), allude alla celebrazione della madre, biologica depositaria del mistero della vita. Il cumulo di ossa umane rappresentato al di sotto delle statuette, nel primo strato della sequenza dei livelli di terra, sembra invece costituire un esplicito riferimento alla morte.

Sono questi i simboli che veicolano i significati profondi dell’opera, in cui diversi altri elementi, come il canopo, vaso cinerario che si fa utero, o l’uovo, che secondo la visione pitagorica di ascendenza magnogreca rappresenta la potenzialità biologica e la rinascita, richiamano l’alternarsi ciclico della vita e della morte.

Al tema della morte rimanda anche la serie di sette piccole tele (il numero è un secondo consapevole rimando alle dottrine pitagoriche) denominate l’Antropocene, che focalizzano l’attenzione sul momento fatale in cui si interrompe il dominio della natura sulla cultura: diretto è il riferimento - come denunciato dal titolo stesso - alle catastrofiche devastazioni ecologiche, esito dell’affermazione dell’uomo sulla natura. Il termine Antropocene definisce infatti l’era attuale, caratterizzata dall’affermazione dell’uomo, all’interno del quadro delle ere geologiche della terra, la cui data di inizio è stata fissata introno alla metà del 700’, ovvero nel periodo della rivoluzione industriale, preambolo di eventi di natura catastrofica: si tratta, in sintesi, delle espansioni economiche e commerciali di numerosi stati, le rivoluzioni francese, americana e haitiana, il colonialismo, i totalitarismi e le guerre mondiali che, secondo la formulazione di Karl Polanyi, costituiscono elementi determinanti per una ‘grande accelerazione’ nella trasformazione del pianeta terra ad opera umana.

La rappresentazione della sequenza di strati archeologici delle tre tele centrali, che richiama il metodo stratigrafico proprio dell’archeologia moderna, sembra costituire un vero e proprio simbolo della passione storiografica umana. Al riguardo, è interessante notare che si tratta forse non a caso dell’elemento che lo storico delle religioni Mircea Eliade, un autore caro ad Anna, individua tra i segni premonitori del destino di morte dell’uomo e, in qualche modo, gli elementi chiamati in causa dall’Artista sembrano trovare una reale corrispondenza con quanto osservato dallo studioso rumeno nell’opera Mythes, rêves et mystères (Paris 1957, trad. it. Milano 1990):

 

“In molte religioni, e anche nel folclore dei popoli europei troviamo la credenza che al momento della morte l’uomo ricordi il suo passato nei più minuti particolari e che non possa morire prima di aver ritrovato e rivissuto la storia di tutta la sua esistenza. Come su uno schermo interiore, il moribondo rivede ancora una volta il passato. Considerata da questo punto di vista, la passione storiografica della cultura moderna sarebbe un segno annunciatore della sua morte imminente. Prima di scomparire, la civiltà occidentale si ricorda per l’ultima volta di tutto il suo passato, dalla protostoria fino alle guerre mondiali”

 

In ogni caso, al di la degli aspetti catastrofici della vicenda umana, nell’Antropocene sembra emergere una profonda speranza nella salvezza dell’uomo, che si cristallizza nella presenza costante dei ‘figli della grande madre-animelle’ nelle immagini delle sette tele di piccolo formato, a simboleggiare il desiderio di rinascita e di resilienza e il necessario ri-equilibrio tra natura e cultura.

Non è privo di fondamento ricordare qui che, per la sua stessa vocazione a lanciare il messaggio di salvezza per l’umanità, l’artista viene accomunato allo storico nella riflessione filosofica di F. Nietzsche, secondo il quale nell’uno e nell’altro non possono identificarsi spiriti superficiali, proprio per la missione ultima che li accomuna: “rischiarare dal passato” qualcosa di “grande e di alto”, “tracciando la siepe di una vasta e grande speranza” e facendosi “architetti del futuro”. Mi piace qui ricordare la significativa traduzione del testo di Nietzsche proposta da Benedetto Croce (1929), “costruttori dell’avvenire”, che confluirà nella citazione del filosofo tedesco posta in epigrafe alla terza di copertina della rivista di studi storici ‘La Parola del Passato’, fondata a Napoli nel clima di esaltazione democratica del dopoguerra, dall’editore G. Macchiarioli e dall’antichista G. Pugliese Carratelli: 

 

“La Parola del Passato è sempre simile ad una sentenza d’oracolo e voi non la intenderete se non in quanto sarete gli intenditori del presente e i costruttori dell’avvenire”

 

D’altro canto, le domande che Anna Crescenzi pone alla moderna disciplina archeologica attraverso l’opera sembrano del tutto affini a quelle che caratterizzano gli orientamenti scientifici contemporanei: in questo particolare esperimento che mette in dialogo arte contemporanea e archeologia, l’indagine storico-archeologica non è volta (cito da Anna) a “cercare una verità che possa valere per tutti e tutti i tempi”. Va infatti evidenziato che il percorso artistico e ideologico compiuto dall’Artista si caratterizza anche per un forte, progressivo allontanamento dall’appello acritico alla tradizione, cui ha dimostrato di appartenere senza esserne ‘prigioniera’, nella consapevolezza che le culture costituiscono invece elementi complessi e mutevoli. In tale prospettiva, nell’opera di Anna Crescenzi si valorizza dunque l’idea che, in una società sempre più complessa come quella che viviamo, il confronto con l’antico debba servire a creare menti flessibili e critiche, in grado di valutare le diversità e capaci di uscire dai vecchi quadri mentali per assumerne di nuovi.

Al riguardo, proprio nell’ambito del discorso sulla religione e sui culti antichi, che costituisce uno dei temi di riflessione centrali di Filosofia dell’avvenire, emergono alcuni aspetti interessanti: l’indagine interdisciplinare sulle religioni del Mediterraneo antico mostra, in maniera sempre più nitida, che la struttura mentale sottesa al ‘pensiero politeista’, grazie all’assenza di rigide gerarchie tra figure divine e culti, avrebbe molto da insegnare all’uomo contemporaneo e ai suoi approcci esclusivisti in termini di questioni religiose. Si potrebbe qui richiamare quanto documentato nello stesso contesto di Foce di Sarno, il cui materiale votivo costituisce come accennato una prova inequivocabile dell’esistenza di un luogo di culto preromano (IV-II sec. a.C.) dedicato ad una dea della fertilità, forse l’italica Mefitis che, stando a Plin. N.h. XVII 57,132, il quale parla di un lucus Iunonis nel territorio di Nuceria, sembrerebbe essere stata identificata con Giunone dopo la conquista romana dalla Piana del Sarno: pertanto, come in analoghi luoghi di culto dell’Italia antica, anche nel caso di loc. Foce potremmo infatti trovarci di fronte ad “una serie di denominazioni diverse della stessa divinità, in cui si intrecciano ideologie e filtri linguistici diversi, ma che si rastremano in forti e profondi denominatori comuni”.

Un ulteriore aspetto significativo sembra provenire dalla stessa notizia di Plinio, che parla di una sorta di albero miracoloso (ulmus) all’interno del lucus Iunonis di Nuceria (una radura-santuario sacra a Giunone posta in mezzo al bosco), che era caduto senza apparente motivo e, successivamente, si rialzò da solo e si coprì addirittura di fiori: il testo pliniano sembra fornire infatti uno dei rari (e, pertanto, preziosi) indizi relativi alla probabile permanenza in età storica di un culto dei boschi, che costituisce forse il residuo di un’originaria dendrolatria (culto degli alberi), praticata in contesti dove la mano dell’uomo apportava modifiche a porzioni di paesaggio naturale intatte che, pertanto, erano percepite come “numinose”.

Si potrebbe trarre anche da qui uno stimolo per l’attuazione di una concreta inversione di rotta nel rapporto uomo-ambiente, nel tentativo di ristabilire l’equilibrio tra cultura e natura necessario per la fuoriuscita dall’Antropocene, che l’opera di Anna Crescenzi promuove ed auspica.

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