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Prossima alle radici - 2020

Michelangelo Giovinale

Paradigmi e profonde contraddizioni, ma ancor più, una lesione fenomenologica delle catastrofi naturali, di quel desiderio atavico dell’uomo di sovrastare la natura. Ciò che affiora dallo scavo immaginario nei lavori ultimi di Anna Crescenzi è un’epoca profondamente segnata dall'avanzare prepotente dell’uomo, oltre confini inimmaginabili, capace di infrangere il senso comune delle cose, di trascendere i limiti del conoscibile, di ridurre, se non annullare, le barriere dell’universo. Un trauma, che fa da sfondo a questa sua ultima ricerca, di un’archeologia del grido, segnata da impotenza e solitudine.

Nella pratica del suo lavoro, avviene tutto gradualmente. Frammenti di spazio e di tempo riportati alla luce, e sappiamo che, è attraverso una coltre di nero che la Crescenzi, da lungo corso, muove il suo profondo immaginario creativo. Un’ascensione, attraversando luoghi, non solo immaginari, di cui nulla sarà più come prima.

Anna Crescenzi, si è sempre posta al centro della conoscenza della natura, con uno scrutinio antropologico. Annotando puntigliose osservazioni, meditando, sul come e sul dove, di certe presenze o assenze e di taluni luoghi della sua esistenza, dove fossero finiti, perduti, irrimediabilmente compromessi. Interroga, ferocemente le sue radici e si muove con quel fiuto proprio dell’archeologo, dentro spazi di conoscenza e di sapere di dimensioni interstiziali.

E’ dotata di sensibilità. Una cifra facilmente riconoscibile nel linguaggio delle sue opere che mostrano un senso di assoluta visionarietà. Le riesce, tirandosi fuori dai luoghi comuni, di rievocare ossa, frammenti di vasi ceramici, costruire enormi bozzoli filati o piccole figure di omini fascianti, senza mai inciampare in quell’artificio estetico della mera citazione archeologica.

Il transfert, dalla pratica dello scavo che desume dall’archeologia, concettualmente più che materialmente, avviene per effetto di qualcosa che la attraversa, che sente come richiamo, angoscia di un altrove. Voci di dentro, provenienti da un sottosuolo, sì di un passato remoto ma che ancora, a suo dire, e nel suo fare, parlano al nostro tempo e incalzano, orientano, un futuro più che prossimo.

Il ciclo di opere assume, in qualche modo, il principio di una certa scuola di pensiero che concerne il tempo e la memoria. Il recupero di tracce, frammenti, di ciò che resta di ritrovamenti o di avvenute devastazioni. Elementi che l’artista oltrepassa, ricaricandoli di linfa, che irrora lo spazio di un tempo attuale in fibrillazione e in continuo movimento. E’ la somma di quei luoghi che sappiamo la Crescenzi esplora, in Antropocene e non solo, da lungo corso, sapendosi calare nello scavo più intimo e profondo, che vien giù, a diverse intensità dell’anima. Una stratigrafia, che comporta traumi a volte spettrali, sia che restituiscano ricordi di affetti a lei familiari, legati a un’infanzia quasi mistica, la sua formazione, sia che il ritrovamento da questo suo scavo, il più delle volte, restituisce luoghi o persone di cui si è persa ogni umana traccia di ricordo.

La memoria, centrale nel lavoro di Anna Crescenzi, opera strettamente a ricostruire un suo archivio esistenziale. Orme, presenze penetranti, che non smettono mai di raccontare, di incalzare, mai separate dal corso degli accadimenti della vita. Sarà anche per questo che, la pratica del cucire, del rammendare lembi è insistente nel suo lavoro. Qualcosa, che accresce l’idea di un bisogno di ricomporre, tenere assieme, accogliere, come nuova possibilità.

E’ indubbio, come nei lavori ultimi della Crescenzi lo scavo in profondità -il calarsi nelle oscure botole della memoria- rechi in superficie quelle tracce o flebili frammenti, di un nostro essere stati, che ci dicano, in fondo, che noi abbiamo vissuto.

Nel silenzio del suo lavoro opera come un mantra, un esercizio estremo al fine di scardinare il nichilismo torbido del tempo moderno, senza alcuna umana sostanza, privo di esortazioni per la coscienza e senza quel desiderio che ha spinto fin qui l’umanità, nel bisogno di conservazione della conoscenza.

E’ un punto nevralgico, su cui insiste questo ultimo ciclo di lavori della Crescenzi: un’archeologia che irrompe dal silenzio, un grido. Un urlo il suo, di quel conflitto inesorabile che si consuma portando in lumine ciò che le tenebre hanno preservato come sedimentazione umana nel corso dei secoli.

Un urlo, appunto, che la Crescenzi con i suoi ritrovamenti rivolge all’interiorità dell’uomo. Una memoria che, per certi versi, si manifesta spettrale, disegnando -vi è facile coglierlo nei suoi lavori- sempre la presenza di una linea di centro. Un orizzonte di senso, al di sotto del quale sono conservati un universo di storie e di memorie, -sotto i nostri piedimentre, con un senso assai diverso, al di sopra regna il disordine causa di quell’umana devastazione ad opera dall’uomo, nel sovrastare il mondo.

Quel celeste confine che annotava Giacomo Leopardi, oltre la siepe di ginestra ostacolo alla sua immaginazione, allo sguardo della Crescenzi risulta di relitti di uomini e barche, calde ciminiere industriali, mari che rigettano pesci, boschi arsi e aridi cretti di terra. Plastiche galleggianti e avvoltoi, divoratori di carcasse di morte.

Nella lettura di Antropocene - nella sequenza delle sette opere che la compongono con immagini che sembrano evocare scenari danteschi - si ravvisa quell’eccesso di intelletto umano che può dirsi sbilanciato al di sopra della natura. L’immagine di un progresso della società contemporanea che pensa di poterla plasmarla a suo piacimento. Un processo di annientamento, irreversibile in alcune parti del mondo, in corso, che si incammina consapevole verso un nefasto destino di autodistruzione e morte.

Nel calarsi nella sciagura di taluni luoghi del suo vissuto - divenuti non luoghi - Anna Crescenzi segnala di un sottosuolo, che ancora conserva stratificazioni di generazioni, bacino di risorse illimitate, di ricordi coscienti. Un lavoro, quello di Antropocene che si muove come ispirato dall’universo della pratica archeologica, dove nel suo progetto di scavo interiore, l’artista riflette di un bisogno intimo di restituire alla luce un suo patrimonio memoriale.

Nel buio pesto dei suoi neri è da costatare come si vada ad insediare, quasi sempre, una speranza dell’evento inatteso della resurrezione. Una luce che sfida l’ombra, rincorrendo quel lato oscuro dell’umanità. La si coglie, chiaramente, nelle fiammelle che ardono sospese nelle opere di Antropocene. Nei rami raccolti e coloratissimi, nei bozzoli dorati posti ad adornare le teste sculture di Resiliency. Nell’ascensione o fuoriuscita -che sembra alludere ad una resurrezione- di quei minuti corpi fasciati e liberati nel cielo di Filosofia dell’avvenire.

L’ombra, quel nero oscuro è una presenza costante nel cammino ultimo dell’artista, ciò che maggiormente insiste nella cifra stilistica del suo lavoro. Immediato, nella risoluzione accurata del tratto delle immagini. In gioco, vi è in atto un rovesciamento di senso del colore, che l’artista perpetua come fosse un riscontro alla sua ricerca di scavo archeologico esistenziale.

Il nero, non come erosione del tempo, piuttosto una sua palese espressione. Nella cenere e nella polvere, il tempo -pare dirci Crescenzi- lascia la sua impronta, custodisce un suo frammento. Segni, in quella nuda terra, che occorre tornare di braccia ad arare. A scavare.

Ciò che viene mostrato è il dominio dell’uomo sulla natura, causa dal dominio reale dell’uomo sull’uomo. Una presentificazione dell’orrore, di devastazioni, la notte più lunga e buia dei nostri tempi moderni. Tuttavia, vi è sempre una ricomposizione delle forme nel lavoro della Crescenzi, un gesto salvifico, sia che al centro vi sia il lavoro sul piano della pittura, sia la ricerca di una forma in scultura. Una creatività che oscilla, quasi sempre, fra soggettività e oggettività dell’opera allo specchio della realtà.

A stento, i lavori ultimi, trattengono quel bisogno umano di ritrovarsi in quel legame profondo con le origini. Da qui, si inarca una ricerca della forma, slanciata in chiave poetica -è solo la poesia che resiste alla morte- e vale all’artista come monito, viatico, di un cammino verso una nuova umanità.

E’ come, se la sua memoria archivio, di fonti esperenziali e di coordinate geografiche, irrorasse i rivoli sotterranei di una sua memoria inconscia. Una propulsione creativa, che si infiamma, pungola l’artista, la agita, in questo suo scavare sotterranea.

Il segnale è anche di uno sprofondamento emotivo, in quella parte di territorio indefinito, che noi sentiamo essere proprio dell’anima. Risonanza di materie e di corpi, o di frammenti di parte di un corpo. Una ricerca, quella di Anna Crescenzi, protesa attraverso lo sguardo a scrutare il paesaggio, immancabilmente, assente lungo quella linea centrale del suo orizzonte.

Il ritorno dallo scavo nella sua immaginazione, rileva anche una sfasatura. Una verità è che ciò, nulla sarà come prima. Qualcosa che irrimediabilmente soccombe alla memoria e al tempo. Si perde nello scontro fra uomo e cultura, fra uomo e natura. Qualcosa si frantuma.

In “quella terra di mezzo -richiamando il pensiero di Enzo Melandri - che dovrebbe indicarci, chi siamo “noi oggi” e cosa è per noi questo “oggi” ad Anna Crescenzi riesce la risalita.

Nella sua opera sa accoglie il trauma, quella profonda lesione esistenziale che ha reso meno integro l’uomo moderno. Risale il suo operare verso una luce come verso una nuova epifania. Restando, il piu possibile, prossima al luogo dei suoi ritrovamenti. Restando prossima alle sue radici.

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